Lo sapevo che succedeva.
Arriva il freddo, piove, il microbo è in agguato.
Gli untori ti corrono incontro con il viso d’angelo e le
manine protese.
Ti ritrovi così, con gli occhi cisposi, la gola in fiamme,
la lingua salmistrata, il naso impazzito e le mucose fuori controllo.
Poi tanta tosse, brividi di freddo e vampate di calore, giri
per casa e vai al lavoro che sembri una lumaca schiumosa, ma non una linea di
febbre.
Un raffreddore con i fiocchi: due settimane di gocciolamenti
e metri quadrati di fazzoletti consumati.
Così niente corsa per due settimane e meno correvo più mi
venivano fuori acciacchi e dolori vari mai sentiti prima.
Da un paio di giorni le cose vanno meglio, tanto che ieri
sera un giretto l’ho fatto, ho trovato il coraggio.
E di coraggio ce n’è voluto, non perché avessi paura di
passare dal “livello raffreddore” al “livello polmonite”, quanto perché non
avevo voglia di sentirmi una merda.
Non avevo voglia di sentire i polmoni bruciare, di non avere
il fiato, di avere le gambe pesanti, di non riuscire a respirare…
E’ stato tutto come me l’aspettavo: faticoso e orribile.
Più o meno dopo 40 minuti ero in riserva, le scarpe
strisciavano per terra, la comunicazione con il compagno di corse languiva e
speravo nei semafori rossi per tirare un po’ il fiato.
Arrivare alla fine è stata una liberazione, ma almeno ho ricominciato.