Ravenna ore 7:50 di una freddissima domenica mattina, in
mezzo ad un parcheggio ancora vuoto.
Ho sbagliato come al solito a mettere la sveglia e sono
talmente in anticipo che potrei anche dare una mano a gonfiare il salsicciotto
dell’arrivo.
Ad ogni sbadiglio mi si disarticola la mandibola.
Prima della pelle ho almeno 4 strati d’indumenti e non mi
ricordo se ho tolto il pigiama.
Nessuna voglia di spogliarsi, prendere freddo, ma
soprattutto un senso di vomito solo al pensiero di mettersi a faticare per 21 km.
Eppure ieri sera la voglia di venire su e correre ce
l’avevo.
La cerco bevendo un caffè.
E mi ricordo che due anni fa ero qui ed è stato un disastro:
la peggior mezza maratona della mia vita, l’unica volta che ci ho messo più di
due ore.
Ma qualcosa deve essermi piaciuto per esserci tornata a
questa “Tra valli e pinete”.
L’odore della pineta.
Il silenzio degli alberi e del bosco.
L’accento romagnolo.
La stessa brezza marina di casa, quella dell’Adriatico, che
soffia e che porta quell’odore familiare di salmastro e con un vago retrogusto d’ottani.
Adesso lo so perché sono tornata: perché, anche se la gara
era andata malissimo e alla fine ero arrivata camminando, la corsa m’era
piaciuta.
Ecco il perché della sveglia all’alba e dei 150 km di A14.
Quando finalmente si parte (ore 9:30) ho trovato tutto: la
voglia di correre, il coraggio di svestirmi, l’audacia di indossare i pantaloni
a metà gamba, niente maglie pesanti, solo i guanti, che però arriveranno a mala
pena al terzo chilometro.
Avanti tutta finché il fiato e le gambe reggono, con soste
comode ai ristori, perché non è il caso di strozzarsi con il the solo per
arrivare trecento novantanovesima anziché quattrocentesima.
Quindi un buon ritmo fino al diciassettesimo, poi quattro
bei chilometri da stringere i denti, a testa bassa, controvento.
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