Corsa a Trodica di Morrovalle: parti dalla piazza, esci
sulla statale, ti butti con un po’ di slancio sull’unica vera salita, poi un
momento di respiro in mezzo ai campi, infine un tratto un po’ antipatico perché
sei di nuovo sulla statale.
Si conclude tutto con un giro molto largo della piazza, un
paio di curve ed il rettilineo finale di 100 metri da correre a tutta perché
c’è sempre qualcuno che da dietro ci prova ad arrivare prima di te e, se non
stai sveglio, in un secondo, per uno sputo, ti giochi l’ambitissima
trecentocinquantasettesima posizione.
I pettorali sembrano un po’ riciclati perché presentano dei
buchi sospetti agli angoli, ma sono puliti, alla fine per tutti c’è l’uovo di
Pasqua…
Insomma ero pronta alla solita gara, alla solita domenica di
corsa, non esaltante, ma almeno un’onesta sudata sotto il sole, buona per
smaltire le birre del sabato sera.
E così è stato, almeno fino a metà del nono chilometro.
Sono lì che faccio la prima curva a destra e rientro nel
quartiere, il ragazzo davanti a me grippa e s’inchioda, io lo schivo e vado
avanti.
Sento ciabattare da dietro e lascio strada ad un simpatico
signore che ringrazia, insieme a lui faccio l’ultima curva e alziamo la testa
per vedere lì davanti l’arrivo, in cerca di un po’ di energia per arrivare con
slancio.
Mentre sta per partire l’irreversibile cavalcata finale ed
il cervello spinge un “play” immaginario per tagliare il traguardo urlandomi in
testa “Let there be rock”, mi si parano dinanzi una transenna ed un
nastro bianco e rosso: l’appuntamento con il traguardo è rimandato dietro altre
due curve inattese ed inopportune, forse per aggiustare un po’ il
chilometraggio.
Il cervello riavvolge il mastro e attacca con La locomotiva
di Guccini, taglio il traguardo ripetendomi “che gli eroi son tutti giovani
e belli… che gli eroi son tutti giovani e belli”.
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