martedì 9 febbraio 2016

...io nemmeno ci volevo andare

Io infatti non ci volevo nemmeno andare.
L'avevano pure cancellata dal calendario e non ne avrei nemmeno sentito la mancanza, perché in fondo erano 21 km di noia, a parte qualche chilometro di sterrato vicino al fiume.

Ma, tra che l'avevano miracolosamente resuscitata e messa in saldo se t'iscrivevi entro fine mese, tra che l'avevamo buttata lì sul sonnolento gruppo whatsapp al grido di “Tutti a ….”, con un entusiasmo che non leggevo da quando era stata postata una foto con un cesto pieni di salami che avevamo riportato da una gara dell'oratorio, dove eravamo stati il gruppo più numeroso in virtù del fatto uno aveva reclutato pure suo nonno per farlo correre con noi...insomma alla fine m'ero fatta convincere e m'ero fatta iscrivere.

Già il giorno dopo m'ero pentita, appena il solito diavolo tentatore m'aveva fatto capitare tra le mani un interessante volantino di un trail verso Ascoli: 15 chilometri in mezzo ai monti, putroppo lo stesso giorno della sventurata gara di cui sopra.

E poi pioveva e faceva tanto freddo.
Alle 6 di mattina m'era arrivato un messaggio della prima defezione, ma io ero partita lo stesso.
In macchina la compagna di viaggio, anche lei iscritta nel gruppone della 21 km, era molto incerta se ripiegare sulla dieci o se addirittura restare al bar a stordirsi di cappuccini.

Insomma le premesse non erano affatto buone e infatti poco dopo la partenza è successo il fattaccio.

Quinto chilometro, nemmeno mezz'ora di corsa ed ero parcheggiata al lato della strada, con la piacevole sensazione che qualcuno m'avesse ficcato uno spillone dietro la coscia sinistra.
Due tentativi di allungare l'arto facendo poi qualche passo di corsa, tre rapidi conti e se 21 meno 5 faceva ancora 16, era evidente che il traguardo era troppo lontano per arrivarci saltellando su una gamba sola.

La 21 chilometri che non volevo fare adesso era diventata una lunga passeggiata di 5 chilometri. E non è che avessi nemmeno tanta voglia di fare questa passeggiata.
Nel frattempo pregavo che la tizia che era in macchina con me, quella che non voleva nemmeno partire perchè pioveva, a cui avevo pure lasciato le mie chiavi della macchina, avesse deciso di svoltare per la dieci o che, se avesse continuato per la lunga, almeno fosse in giornata di grazia e si regalasse una prestazione straordinaria, anche in odore di doping, purché non mi lasciasse a congelare al traguardo.

Tutto ciò accadeva a fine novembre.

Da tutto ciò ho imparato varie cose.

Primo: quello che sembra un crampo, che fa male come un crampo, a volte non è un crampo.
Secondo: quello che non è un crampo, se anche non fa male, sta nascosto e ogni volta che ti rimetti a correre torna fuori.
Terzo: a volte il riposo non basta, soprattutto se non sai quanto devi riposare e allora serve che qualcuno te lo dica. Ma non il primo che passa o il solito uomo che “ne ha passati tanti di infortuni” e che sostiene la tesi della sindrome della sassata.


Ma soprattutto ho riscoperto, di nuovo, che, dopo un mese in cui non corri, quando ricominci, ti viene da vomitare, per davvero, non per finta.

martedì 8 settembre 2015

Marcialonga Moena-Cavalese

Ci stipiamo in auto in sei  alle 9 e partiamo.
E siamo: l'autista proprietario dell'auto che s'è offerto volontariamente di metterci il proprio mezzo e la voglia di guidare (bontà sua), il passeggero di destra sul sedile anteriore, debole di vescica, con l'esigenza di una visita all'autogrill ad ogni cambio dell'ora e mai una volta che la vescica si fosse coordinata con lo stomaco.

In seconda fila ci sono io, al centro del sedile, che già a Senigallia m'ero tolta le scarpe per assumere la postura da fachiro attorcigliato. Scarpe che ho dovuto rimettere e ritogliere ogni volta che si scendeva per la sosta richiesta da "vescica debole".

Alla mia destra una giovane pulzella, terrorizzata dalla mole di chilometri che avrebbe dovuto correre l'indomani. Inveisce contro l'autista da cui è stata arruolata, forse con l'inganno.
Ha fatto 20 chilometri, non si ricorda nemmeno quando ed è convinta che non sopravviverà.

Alla mia sinistra l'uomo anziano del gruppo: è venuto perchè s'è stufato di languire al caldo e vuole due giorni di fresco, dove lo metti sta, sono vent'anni che corre e se nomini una gara lui l'ha fatta, anche se piano. Ha i suoi acciacchi, ma 25 chilometri non lo spaventano.

Terza fila: se cerchi bene tra i borsoni, troverai il sesto elemento: si è immolato dandosi volontariamente disponibile per occupare quello che sembra il posto del bambino in castigo. Ogni tanto partecipa alle conversazioni, anche se è evidente che da laggiù in fondo non sente una parola e spesso non si capisce se dorme o sia svenuto per mancanza di ossigeno.

Dopo 7 ore di strada, dopo aver visto non so quanti autogrill, finalmente arriviamo a Moena ed è subito inverno. Piove e fa freddo, l'entusiasmo ovviamente ne risente.
Si va a ritirare il pettorale e ne approfitto per comprarmi un nuovo paio di scarpe, perchè quelle che ho sono palesemente al capolinea, tra l'altro ormai emanano un odore fetido: probabilmente sono in decomposizine.

Si cerca conforto dentro un paio di pub in attesa che arrivi l'ora della cena: qualcuno nei giorni precedenti aveva promesso con leggerezza che avrebbe pagato delle birre e io sto lì a ricordargli di onorare gli impegni presi: dopo 4 birre medie e la cena mi ritiro in un letto striminzito e crollo dal sonno.

Ore 7 io e la pulzella che divide la camera con me siamo sveglie ma infreddolite, abbiamo coperto il pavimento di indumenti: fuori c'è il sole ma ci saranno più o meno 7 gradi e la tentazione di correre con tutto quello che possiamo metterci addosso è molto forte.
Rimandiamo la decisione a dopo la colazione, lasciamo tutto sparso per la camera e scendiamo a vedere se l'autista, la vescica debole, l'anziano ed il bambino in castigo si sono svegliati.

A colazione ci si confronta per sapere chi di notte ha russato e chi ha dormito, niente di utile ai fini della vestizione per la gara.
Si ritorna in camera, si affronta il caos degli indumenti e prendo in mano la situazione: fidiamoci del sole e buttiamoci sul corto, il freddo è nella nostra testa, dipende solo dal fatto che veniamo da un posto troppo caldo. La pulzella si fida, anche se poi decide di mettere tutto il suo guardaroba nel sacco da far trovare all'arrivo, che non si sa mai cosa puo' succedere...

Si scende alla partenza e ci mettiamo in coda a tutti: gli uomini sono spariti, siamo io e la pulzella che continua a dire "Speriamo bene...speriamo bene...", non so se ha paura dei chilometri o di non ritrovare al traguardo la sacca che ha riempito di tutti i suoi averi.

La partenza ci coglie un po' alla sprovvista, c'è molta gente, zizagando iniziamo a prendere un ritmo anche se non so quale sia, perchè il Garmin è morto, probabilmente dal freddo, ma il dislivello è favorevole e mi pare giusto approfittarne.
La pulzella sembra scettica ma mi viene dietro, si fida. Lei ha fatto solo 20 chilometri, probabilmete in un'altra vita, io ho un'autonomia garantita solo fino a 18, quindi vediamo di fare più strada possibile prima di andare in riserva.

Ci passiamo e ripassiamo con vescica debole, poi finalmente se ne va per la sua strada, autista e bambino in castigo sono di certo molto avanti, l'anziano molto indietro. Dopo 3 chilometri sorpassiamo anche un altro del nostro gruppo, lo chiameremo settimo o il ciclista: non contento di fare 25 chilometri era già sù da qualche giorno per fare sabato una gara di mountain bike, la gara di bici non so com'è andata, per la corsa idem, dopo questo primo avvistamento, nessuno l'ha più incrociato.

Ai ristori controllo i miei segni vitali e quelli della pulzella, sembra aver preso coraggio, ma ogni tanto sembra convinta che stiamo andando troppo forte, ma basta ripeterle che "a rallentare si fa sempre in tempo, finchè si può andare è meglio andare", che se ne fa una ragione.
Al diciassettesimo chilometro, quando dopo averle chiesto per tre volte se c'era e, non avendo ricevuto risposta, ho capito che me l'ero persa.

Alla mezza maratona non ho la minima idea di quanto tempo sia passato dalla partenza, corro al buio, sono palesemente circondata da crucchi ed evito di esibirmi in un inglese maccheronico e storpiato dall'affanno della corsa.

Inizia la salita: pensavo peggio, niente di sconvolgente, mi volto per vedere se la pulzella ha recuperato, ma non mi sembra, davanti vedo vescica debole, ma è troppo lontano per fargli il torto di sorpassarlo.
All'arrivo, chiedendo a quelli arrivati intorno a me e facendo una media, decido che ho impiegato più di 2h 15'', ma meno di 2h 20'', per averne la certezza lascio che il chip faccia valere le sue ragioni in seguito.


Dopo altre piccole avventure, legate alle docce, al pasta party, a gente sparita a farsi un massaggio e soprattutto ad altre due birre, ma che non starò a raccontare, l'equipaggio rientra, nella medesima formazione, bocciando all'unanimità il piano B per il ritorno intelligente proposto da vescica debole.



martedì 4 agosto 2015

T.A. Sappanico



Una bella battuta al cinghiale.
Tra i boschi della Selva.
A pochi minuti di macchina da casa.
E per una volta non è servita nemmeno la sveglia.

Il tempo sconsigliava di andare al mare.
Per la verità sconsigliava anche l'uso della canottiera: all'improvviso sembra novembre, dopo settimane di un caldo infernale, da aver voglia di staccarsi la pelle di dosso.

Siamo quaranta scarsi e dagli accenti che sento, direi che non ce n'è uno che abiti più a nord di Falconara e più giù del casello di Ancona sud.

Non c'è iscrizione, non ci sono classifiche, non c'è nemmeno segnato il percorso, se lo inventa quello che sta davanti e ai bivi ci si aspetta.

La Selva di Gallignano è un posto un po' nascosto, una specie di foresta di sherwood, ma più in piccolo e senza Robin Hood. Sentieri scivolosi, scalini mangiucchiati dal muschio, qualche casa nascosta che non t'aspetti, due bracchi italiani sempre a zonzo ma innocui, tanto silenzio protetto dalle fronde degli alberi.

Di sicuro è un bosco abitato, ma domenica credo che la fauna locale si sia ritirata nelle tane più profonde o nascosta nei nidi più alti, turbata dal passaggio di una quarantina di “cinghiali” per lo più fosforescenti e puzzolenti, strizzati dentro magliette sintetiche sudatissime, che si chiamavano da un capo all'altro del bosco, che maledivano le salite, che facevano un gran baccano.

Gli stessi cinghiali, non tutti, m'è sembrato poi di averli rivisti la sera, alla cena della sagra della Spuntatura...con il loro buono per la cena, sudato con fatica al mattino.



giovedì 25 giugno 2015

Io e la montagna

La montagna non mi piace.
Non voglio che sia fresco, mi va benissimo il caldo.
Nessun laghetto morenico non m'ha mai incanta con la sua acqua limpida, per me sarà sempre solo una pozza troppo fredda per farci il bagno.
L'altitudine delle vette non mi stimola nessuna riflessione sulla grandiosità della natura e sulla piccolezza della condizione umana; mi ricorda solo che soffro di vertigini.
Il silenzio non m'invita a nessuna meditazione, nè ad alcun elogio della pace e della tranquillità.

Ma se si tratta di correrci allora è diverso.
Allora mi posso svegliare anche alle 5 di una domenica sacrificata al mare, posso farmi 2 ore di macchina per ritornare di nuovo sotto il Monte Vettore, guardarlo e pensare che non è poi così male.
Certo tira un vento che se non stai attento ti stende.
Ci sono giusto quei 10 gradi che, appena scendi dall'auto, ti fanno accartocciare le spalle.

Ma almeno c'è il sole quest'anno.
E poi quando ti passa di fianco l'ennesimo alpino in camicia e pantaloni corti, uno addirittura in canottiera, decidi che è ora di smetterla di essere una freddolosa ragazza di città.

Arriva il momento di cambiare atteggiamento, l'ora in cui s'indossano i pantaloni corti, addirittura più corti di quelli dell'alpino.
E si aspetta la partenza.

Da questo momento la montagna cambia e mi piace un po' di più.
Se corro non fa freddo.
Se corro il silenzio si riempe del ritmo del mio respiro.
Se corro non ho tempo di guardare in basso e di avere le vertigini.
Se corro mi piace respirare l'odore dell'erba calpestata.

Se è per correre allora ci posso tornare in montagna..


venerdì 15 maggio 2015

Solo il primo della fila può decidere

Il primo della fila decide.

Decide se si corre.
Decide quanto si corre.
Si tira dietro tutta la fila che tiene il passo, fissando le suole delle scarpe del capo.
Chi si attarda e perde il contatto resta dietro e non recupera.

Lui che sta davanti, sente dietro i sospiri e gli sbuffi.
Gli arrivano gli echi della fatica che si fa alle sue spalle.
Voltandosi appena, chiede ogni tanto, per dovuta cortesia, se qualcuno vuole passare, anche se sa che finché sta davanti il passo lo decide lui.

Qualche battuta su quanto è dura la salita.
Qualcuno che chiede quanto manca.
Vuole sapere quanto c'è ancora da soffrire.
Chi l'ha già fatta o tace e ride sotto i baffi, oppure affossa il compagno della fila, gli azzera qualunque voglia di accelerare con l'oscura promessa che il peggio è da venire.

Il primo della fila sta in silenzio, sale e spera di perderne qualcuno per strada, perché la responsabilità è tanta, così come la fatica.
Anche perchè quelli ti seguono come fossi il pifferaio magico: se sbagli strada, non vedi un segnale, tutta la fila finisce a pascolare nell'ignoto.
Sempre con il sospetto e l'ansia che qualche traditore, appena l'hai portato in cima, si dia alla fuga.

Il primo della fila corre davanti, ma quando inizia a camminare, tutta la fila immediatamente fa lo stesso e tira pure un sospiro di sollievo: tutti volevano camminare, ma nessuno vuole essere il primo a cedere.
Solo il primo della fila può decidere quando si cammina.

Sarà per questo che al sesto chilometro della quarantesima edizione della primavera fabrianese, appena passato il bivio dove si decide se fare 22 km o solo 15, davanti alla prima vera salita della distanza lunga, dopo il ristoro, mentre corriamo per imboccare di nuovo il sentiero stretto nei boschi, io ed il ragazzo di fianco a me ci blocchiamo e ci guardiamo in faccia: chi va per primo?

Un momento d'imbarazzo risolto da un terzo personaggio, che sbuca alle nostre spalle ed ignaro imbocca il sentiero per primo.
Adesso la responsabilità di portarci su è sua...



Poi piccole, futili ed effimere soddisfazioni dalla gara di domenica: 22 km finiti in 2h56'.. e per ricompensa una bella coppa per essere arrivata terza...


martedì 24 marzo 2015

Il competitivo alla non competitiva

Una situazione molto informale e rilassata.
Il termine delle iscrizione è fino a che non s'è iscritto l'ultimo della fila, senza stare tanto a guardare tessere e tesserini.
La partenza però è solenne: si suona il silenzio con la tromba e si spara con la pistola.

Per il primo chilometro l'importante è non calpestare nessuno, poi le salite fanno le selezioni del caso: podisti avanti e camminatori dietro.

A metà della prima salita lo incontro e subito scatta qualcosa.
E' vestito di nero, infagottato in un impermeabile che lo gonfia come un palloncino, calzettoni arrotolati sulle caviglie, che denunciano frequentazioni calcistiche, doppio pantalone, uno attillato sotto che è anche molto tecnico, un altro che lo copre e che si abbina perfettamente ai calzettoni, fascia in testa e auricolari ben calzati nelle orecchie.

Dopo aver scollinato alla prima salita, mi sfila di fianco petto in fuori e collo proteso.
Non ci faccio caso.
E' normale: in discesa mi passa sempre un sacco di gente.
Si posiziona a circa una decina di metri davanti a me.
Sulla salita successiva lui arranca e io passo: è il mio turno di stare davanti.

Altra discesa e lui va davanti.
Poi un tratto quasi pianeggiante e allora me ne accorgo: lui va avanti a scatti, accelera solo se mi sente arrivare.
Cambio lato della carreggiata per vedere che succede.
Non mi sente e allora rallenta.
Poi mi vede e scatta avanti.

A questo punto la situazione è ufficialmente comica: siamo nel mezzo del nulla della campagna intorno a Jesi, ad una 12 chilometri non competitiva organizzata dai preti dell'oratorio, si e no che si sa il totale dei partecipanti, ma siamo di sicuro un paio di mila, all'arrivo prenderanno nota solo dei primi 10 arrivati, giusto perché lo speaker abbia qualcosa da dire, per lo più si premiano i gruppi numerosi e fanno mucchio pure i cani ed i gatti.... e io ho ho di fianco un fiero esemplare di jogger competitivo.


Per alcuni c'è un abisso tra essere il numero 799 ed il numero 800...per altri conta solo l'aver fatto 12 km collinari in 1h 04'...sono punti di vista.

martedì 17 marzo 2015

Trail del verdicchio


Una cosa alla “pronti partenza via”.
In apparenza “alla buona”, ma fatta con cura e soprattutto da non sottovalutare.

Perché non sono il pettorale stampato, né il chip che fanno la corsa.
La corsa la fanno la strada e le gambe, senza tanti fronzoli.
Poi, se si ammucchiano almeno una decina di persone, diventa automaticamente una gara, perché a nessuno piace stare dietro.

L'organizzazione c'è: una linea che segna il traguardo, le frecce puntuali che indicano la strada, i ristori ogni 5 chilometri che scandiscono pure il procedere del percorso.
Ci sono pure due distanze: 20 e 30 chilometri.

Io ovviamente ho scelto la 20...

E sono 20 chilometri di salite e discese in mezzo alla campagna, in mezzo al panorama delle colline intorno a Serra De Conti.
Tra il grigio del cielo, il verde ed il marrone di campi, dove sta nascendo il grano, spiccano i colori fosforescenti di piccole formichine a due zampe che si arrampicano sulle salite e che poi spariscono quando iniziano le discese.

La formichina Cristina sbuffa e suda. Però corre con orgoglio per tutti i 20 chilometri, a parte la cresta finale di una maledetta salita verso il decimo...perché quella proprio non ce l'ha fatta.
Ad ogni ristoro prende fiato, almeno due bicchieri d'acqua ed uno spicchio d'arancia, che siccome ha il raffreddore la vitamina C di sicuro le fa bene.

Arriva al bivio dove le due distanze si dividono e guarda per la prima volta il Garmin per capire a che punto è della sua avventura: tre quarti della corsa se ne sono andati e la fatica inizia a farsi sentire, è persa in mezzo al niente e all'orizzonte non vede altro che campi e casolari, nessun paese, nessun campanile familiare.

Poi un passo alla volta è ai piedi del paese, ora basta arrampicarsi su, qualche tornante, un'inaspettata deviazione lungo il corso del fiume e poi dietro una curva finalmente l'arrivo: 20 chilometri di Trail del verdicchio portati a casa con soddisfazione in 2h 03'...

E poi, dopo una doccia calda nel palazzetto dello sport, tutti a mangiare insieme: penne al sugo, tanto pane e salame e ovviamente il verdicchio, tutto a volontà...

Perché un'organizzazione “alla buona” è spesso una buona organizzazione...